Marchi nei motori di ricerca: perché la registrazione è la migliore difesa
A cura di Benedetta Dolci, Italian and European Trademark Attorney PRAXI Intellectual Property
Nel panorama digitale odierno, la visibilità sui motori di ricerca rappresenta un vantaggio competitivo decisivo per le imprese. La pubblicità a pagamento tramite ricerca di parole chiave - il cosiddetto keyword advertising - consente di intercettare potenziali clienti proprio nel momento in cui stanno cercando attivamente un prodotto o un servizio. Ma cosa succede quando questa visibilità si ottiene facendo offerte sul nome di un marchio concorrente? Il confine tra marketing aggressivo e concorrenza sleale si fa sottile.
È un tema di grande attualità, che abbiamo avuto modo di approfondire direttamente. Nelle aste pubblicitarie online, i professionisti del marketing spesso fanno offerte su nomi di marchi che non appartengono alla propria azienda, con l’obiettivo di attirare traffico verso i propri annunci. Ma è una pratica legale?
Il keyword advertising è una tecnica promozionale online basata sull’acquisto, in un’asta pubblica, di parole chiave che attivano la visualizzazione di annunci sponsorizzati nei risultati di ricerca dei principali browser. Questa tecnica permette alle aziende di comparire nei risultati sponsorizzati dei motori di ricerca ogni volta che un utente digita quella determinata keyword. Le parole chiave possono essere generiche - come “scarpe da corsa” - ma sempre più spesso includono nomi di marchi registrati come “Nike” o “Apple”. Esempi concreti:
Secondo la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nella sentenza Interflora vs. Marks & Spencer, l’uso di un marchio altrui come parola chiave non è automaticamente illecito. La discriminante è se tale uso genera confusione negli utenti. Quando un annuncio non consente a un utente mediamente informato e ragionevolmente attento di capire se il prodotto o servizio proviene dal titolare del marchio o da un’impresa collegata, allora l’uso è considerato illecito. È vietato anche quando compromette le funzioni essenziali del marchio. come l’indicazione dell’origine, il valore pubblicitario o la capacità di attrarre investimenti.
Esempio:
Se un servizio di consegna fiori fa offerte sulla parola “Interflora” ma non chiarisce che si tratta di un concorrente indipendente, l’utente potrebbe essere indotto a pensare che stia acquistando dal marchio originale. In quel caso, si configurerebbe una violazione del marchio.
Esistono casi residuali in cui l’uso di un marchio altrui come keyword è ammesso, purché non generi confusione e non leda le funzioni del marchio.
Esempi leciti:
In altre parole, la pratica non risulta essere lecita quando genera confusione sull'origine imprenditoriale dei prodotti o dei servizi. Allo stesso modo, non è considerata legittima se compromette le funzioni essenziali del marchio, come la funzione di indicazione di origine, di pubblicità e di investimento.
I tribunali italiani hanno adottato un’interpretazione particolarmente rigorosa. Nella maggior parte dei casi, l’uso di un marchio altrui come keyword viene considerato una doppia violazione: contraffazione e concorrenza sleale. Le corti italiane fanno spesso riferimento al concetto di “agganciamento parassitario”, cioè al vantaggio ottenuto sfruttando la notorietà e gli investimenti di un marchio concorrente. Ricevono dunque particolare tutela la funzione di indicazione di origine, la funzione pubblicitaria e quella di investimento.
Di fronte a queste pratiche, un dato è certo:solo un marchio registrato consente al titolare di intervenire legalmente in modo efficace. Senza registrazione, le possibilità di reagire all’uso non autorizzato da parte di terzi si riducono drasticamente. Registrare un marchio non è un adempimento formale, ma una scelta strategica, che permette di:
Il Team di Praxi IP è disponibile per approfondimenti all’indirizzo contact@praxi-ip.praxi.
Nel panorama digitale odierno, la visibilità sui motori di ricerca rappresenta un vantaggio competitivo decisivo per le imprese. La pubblicità a pagamento tramite ricerca di parole chiave - il cosiddetto keyword advertising - consente di intercettare potenziali clienti proprio nel momento in cui stanno cercando attivamente un prodotto o un servizio. Ma cosa succede quando questa visibilità si ottiene facendo offerte sul nome di un marchio concorrente? Il confine tra marketing aggressivo e concorrenza sleale si fa sottile.
È un tema di grande attualità, che abbiamo avuto modo di approfondire direttamente. Nelle aste pubblicitarie online, i professionisti del marketing spesso fanno offerte su nomi di marchi che non appartengono alla propria azienda, con l’obiettivo di attirare traffico verso i propri annunci. Ma è una pratica legale?
Come funziona il keyword advertising
Il keyword advertising è una tecnica promozionale online basata sull’acquisto, in un’asta pubblica, di parole chiave che attivano la visualizzazione di annunci sponsorizzati nei risultati di ricerca dei principali browser. Questa tecnica permette alle aziende di comparire nei risultati sponsorizzati dei motori di ricerca ogni volta che un utente digita quella determinata keyword. Le parole chiave possono essere generiche - come “scarpe da corsa” - ma sempre più spesso includono nomi di marchi registrati come “Nike” o “Apple”. Esempi concreti:
- Un venditore di custodie per smartphone può fare offerte sulla parola “Apple” per promuovere i propri accessori.
- Un concorrente di Dyson può acquistare la parola “aspirapolvere Dyson”.
- Una piattaforma di rivendita di prodotti rigenerati può usare “Apple MacBook” per attirare clienti verso computer usati.
Il quadro normativo europeo
Secondo la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nella sentenza Interflora vs. Marks & Spencer, l’uso di un marchio altrui come parola chiave non è automaticamente illecito. La discriminante è se tale uso genera confusione negli utenti. Quando un annuncio non consente a un utente mediamente informato e ragionevolmente attento di capire se il prodotto o servizio proviene dal titolare del marchio o da un’impresa collegata, allora l’uso è considerato illecito. È vietato anche quando compromette le funzioni essenziali del marchio. come l’indicazione dell’origine, il valore pubblicitario o la capacità di attrarre investimenti.
Esempio:
Se un servizio di consegna fiori fa offerte sulla parola “Interflora” ma non chiarisce che si tratta di un concorrente indipendente, l’utente potrebbe essere indotto a pensare che stia acquistando dal marchio originale. In quel caso, si configurerebbe una violazione del marchio.
Quando è consentito?
Esistono casi residuali in cui l’uso di un marchio altrui come keyword è ammesso, purché non generi confusione e non leda le funzioni del marchio.
Esempi leciti:
- Prodotti compatibili: un’azienda che vende cartucce compatibili con stampanti HP può usare “HP” per indicare la compatibilità, a condizione che sia chiaro che si tratta di un prodotto di terze parti.
- Prodotti usati o rigenerati: un rivenditore autorizzato o una piattaforma indipendente può usare marchi come “Samsung” o “Dell” per promuovere articoli di seconda mano, sulla base del principio di esaurimento del marchio.
- Pubblicità comparativa: è ammesso fare riferimenti a un marchio concorrente se la comparazione è oggettiva, trasparente e verificabile – ad esempio, “Il nostro aspirapolvere vs. Dyson: stessa potenza, prezzo più basso”.
In altre parole, la pratica non risulta essere lecita quando genera confusione sull'origine imprenditoriale dei prodotti o dei servizi. Allo stesso modo, non è considerata legittima se compromette le funzioni essenziali del marchio, come la funzione di indicazione di origine, di pubblicità e di investimento.
La giurisprudenza italiana: una visione restrittiva
I tribunali italiani hanno adottato un’interpretazione particolarmente rigorosa. Nella maggior parte dei casi, l’uso di un marchio altrui come keyword viene considerato una doppia violazione: contraffazione e concorrenza sleale. Le corti italiane fanno spesso riferimento al concetto di “agganciamento parassitario”, cioè al vantaggio ottenuto sfruttando la notorietà e gli investimenti di un marchio concorrente. Ricevono dunque particolare tutela la funzione di indicazione di origine, la funzione pubblicitaria e quella di investimento.
Perché la registrazione del marchio è fondamentale
Di fronte a queste pratiche, un dato è certo:solo un marchio registrato consente al titolare di intervenire legalmente in modo efficace. Senza registrazione, le possibilità di reagire all’uso non autorizzato da parte di terzi si riducono drasticamente. Registrare un marchio non è un adempimento formale, ma una scelta strategica, che permette di:
- Impedire ad altri di capitalizzare sulla reputazione costruita dall’impresa.
- Agire tempestivamente contro pubblicità ingannevoli o fuorvianti.
- Tutelare il valore commerciale e distintivo del nome aziendale.
Il Team di Praxi IP è disponibile per approfondimenti all’indirizzo contact@praxi-ip.praxi.